Vicobucotraccio: acquietare la dote e acquisire l’eccesso

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Mostra fotografica a cura di:
Futura Tittaferrante

Allora io sono qui. Apro il calendario e scopro che oggi non è un foglio, ma è un altro gennaio. Vago per il mondo. Cerco. E non trovo.

Poi sfoglio l’immagine della vita. E lì vedo tracce. Ma non sbatto nessun ciglio. Non ho voglia di parole. Sono ancora qui che penso dove cercare il buco della presenza. Cerco. E non trovo niente. Forse sto pensando dell’immagine del mondo. E mentre cerco di non pensare, scopro una. Due. Tre pose di un mondo nascosto ed infame. Ma io, o forse il mio occhio, non possiedo tanta vista per riuscire a vedere nelle immagini di un mondo che si presenta al rovescio. Cerco. Seguo la geometria del mondo squadrato e in basso vedo tracce che scrivono il tempo. Cercavo un pezzo di mondo per tracciare la presenza continua. Eppure io non lo trovavo. Eppure io non avevo mai cercato. Eppure il mondo nascosto ed infame si specchiava dentro il rovescio. Mentre cercavo, più volte ho cancellato il mio sguardo, nascosto al mondo. Ho anche associato l’idea dell’occhio fermo all’idea dell’anima immobile. Eppure non associavo la grandezza dello stupore alla miseria della sporca verità. Niente. Cercavo e non trovavo niente. Aspettavo la grandezza ed oscuravo la miseria dell’infinitesimale esistenza. I numeri erano una serie di numeri. I cartelli erano sono le indicazioni per deviare la vita dell’anima. Le parole erano pietra al di là dello specchio dei sogni. Avrei voluto imparare a cercare lì dove sono. Lì dove la miseria diventa bellezza. Lì dove il mondo si piega davanti al reale. Cercare come spaccare la pietra che mi separa dal mondo invisibile, nell’infinito delle sue forme. Il dolore però mi avrebbe restituito l’immagine della pietra stessa. Cerco ancora e non trovo. Forse cerco lì dove so di poter trovare. Dovrei smettere di tornare indietro, ma i miei occhi, ora, sbattono di ciglia. Continuo ancora. Poi mi fermo. Guardo. Sto guardando un’immagine. Un piccolo fotogramma di esistenza. Ora chiudo l’occhio con il ciglio. Ma ancora riesco a vedere. Potrei descrivere ogni linea di quell’ immagine. Anzi potrei montare una sequenza e farne un film. Ora capisco. Devo guardare per non vedere. Allora guardo. E penso a tutti gli attimi successivi dell’immagine che io non potrò mai vedere. Anzi che io non mai visto. Ho capito: devo parcellizzare l’idea della conoscenza. Conoscere la mancanza. È questo che devo fare. Affianco le immagini. Ma vedo uno spazio. Non posso avvicinarle ancora. Non mi è permesso. Ci sono storie che ci impediscono di avere un spazio agìto. Io ci provo. Poi mi concentro sullo spazio. Ora guardo e non vedo niente. Pensavo che tutto si potesse incastrare. Non tutto. Continuo ad ingrandire per esplorare lo spazio. E non lo riconosco. Troppo infinitesimale. Troppo buco. Troppo vicolo per il rovescio del mondo. Clicco sull’ immagine e riconosco tutto. Eppure, in un tempo dello spazio, ci toccavamo. Eppure c’era un vento impercettibile che ci sfiorava. Ora non più. Posso solo sperare che il mio smalto si asciughi. Ed infilare il mio dito dentro il buco di una porzione di vita, non da me tracciata. Poi sviando lo sguardo, mi rendo conto che ho schivato la vita. Allora capisco di essere stata come la cosa: mobile davanti all’idea del mondo. Ferma a guardare. Ecco perché non sapevo nuotare in quello spazio. Ecco perché il mio smalto non si asciugava. Capisco che non importa spostare la pietra, il segnale, la pioggia della finestra, il salto nel fiume. Posso essere ancora qui e sentire lo stesso il dolore del tuffo. Sono ancora qui. Ma ora mi sento colpevole davanti al mondo nascosto ed infame, perché ancora cerco. Continuo a cercare il rovescio della realtà tracciata. Non importa più cosa cerco. Ora però non sbatto più le ciglia. Mi bruciano gli occhi per lo smalto. Il tuffo. La luce. Il mondo nascosto ed infame. Troppa luce. E sfregando i miei occhi con un fazzoletto, sento il dovere di non buttare via quell’essere cosa. Mi sembra un’immagine chiarificatrice di un’assenza di lacrime. Ora che la cosa si conserva nello specchio dello spazio e vive nel tempo della traccia, scopro. Trovo i numeri. Trova la via. Trovo il riflesso della pioggia e l’oscurità della luce. Per fortuna ho il mio fazzoletto, mi costringe a pensare alla mia vista. Mi costringe ad avere compassione per la verità, usurpata dalla sporcizia del mondo. Mi dà la forza di acquietare la dote ed acquisire l’eccesso, di perdermi dentro i vicoli, di incastrarmi dentro buchi di uomini e vedere, al rovescio, tracce di storie.

All’occhio di Futura, mobile come il presente divenire.
Maria Cristina Sarò

c/o ESTRAVAGARIO
Via Mascarella, 81 – Bologna
Vernissage 23/01/10
Chiusura 24/02/10

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