Nel 2007 sono stati oltre 2,8 milioni gli studenti di nazionalità cinese che hanno frequentato istituti di istruzione superiore al di fuori del proprio paese: un aumento del 53% rispetto al 1999, come riportato da un rapporto dell’Unesco (http://portal.unesco.org). Tra i Paesi prediletti continuano a spiccare ovviamente gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e altri paesi occidentali, ma molte università asiatiche stanno cercando di ottenere la propria fetta di cervelli. Singapore, Kuala Lampur e Hong Kong sono in prima linea. Singapore mira a 150mila studenti entro il 2015, rispetto ai 97mila del 2008; Hong Kong, sebbene senza obiettivi dichiarati, recentemente ha raddoppiato il tetto di studenti stranieri nelle proprie università; Kuala Lampur dichiara di voler raggiungere quota 100mila per il prossimo anno accademico, contro i 71mila attuali.
Obiettivo comune a Singapore, Kuala Lampur e Hong Kong è la capacità di offrire una formazione universitaria in inglese, con un esborso per gli studenti considerevolmente inferiore alle università occidentali, ma ognuna secondo una propria strategia.
Singapore con il progetto “Global Schoolhouse” ha allacciato rapporti stretti con alcune università occidentali, con l’istituzione di campus dell’University of Nevada e l’University of Chicago, e con l’offerta di corsi di laurea congiunti attraverso le università locali con il Massachusetts Institute of Technology e Stanford.
In Malesia la liberalizzazione del settore dell’istruzione nel 1990 ha permesso la creazione di istituzioni private, e nel 2009 si contano 20 università pubbliche, 36 private e 5 campus stranieri. Inoltre nel 2004 è stato eliminato il tetto alla percentuale di studenti non-malesi.
Hong Kong potrebbe essere la destinazione preferibile dagli studenti, forte dell’annoveramento di tre università nazionali tra le top 50 del mondo.
Tra le cause di questa migrazione degli universitari dagli Stati Uniti verso Malesia, Singapore e Hong Kong, è individuabile anche l’inasprimento delle norme sui visti per gli Stati Uniti, politica adottata dal governo americano a seguito degli attacchi terroristici dell’11 settembre.