This must be the place

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Cheyenne, ex-rock star cinquantenne che non ha rinunciato allo stile dark e a sentirsi bambino, dopo la morte del padre decide di continuare l’ossessione paterna di ricercare il tedesco artefice delle umiliazioni subite durante la reclusione nel campo di concentramento. Una trama semplice, quasi sfumata e secondaria rispetto alla fragorosa schiera di personaggi sui generis che si incrociano in questo film in cui Sorrentino sembra esaltare la poetica del particolare. Pochi dettagli essenziali scolpiscono magnificamente le figure che si avvicendano nella storia, permettendo allo spettatore di affezionarsi ai volti bizzarri che incrociano la strada di Cheyenne nel suo picaresco viaggio introspettivo. Sean Penn è così straordinario nell’interpretare questo protagonista a tratti innocente e a tratti grottesco, che risulta impossibile immaginare un altro attore nello stesso ruolo. Cheyenne, antieroe depresso, trascina con sé un bagaglio irrisolto di problemi –il rapporto con il padre, il trauma della morte di due fan, il ritiro dalla scena musicale- simbolicamente rappresentato da un carrello, e poi da un trolley, che porterà con sé per tutta la durata del film, come peso da scontare attraverso questo viaggio dell’eroe che porta alla redenzione. Paesaggi piatti e infiniti, silenzi e incontri per questa storia intima ed essenziale fatta di contrasti, incomunicabilità e una semplice voglia di trovare il luogo del proprio riscatto. Martina Paone

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