The Walking Dead: finisce la terza stagione

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The Walking Dead (Frank Ockenfels/AMC)

Fin dalla sua prima apparizione sugli schermi americani è stata una delle serie più riuscite dell’attuale scenario televisivo. Un finale di terza stagione da 12,4 milioni di spettatori negli USA ha confermato le prime impressioni, già entusiastiche a partire dalla serie pilota -appena 6 episodi- che già aveva fatto parlare di una spallata epocale al genere. Sviluppato a partire dall’omonima graphic novel firmata Robert Kirkman, The Walking Dead ha dato vita ad un piccolo miracolo di interazione tra una storia strepitosa, ottimi attori, musiche perfette e solo in ultimo effetti speciali di livello cinematografico.

Non c’è da stupirsi che Nelle Tombe, puntata finale della terza stagione di The Walking Dead abbia letteralmente massacrato il giorno della sua uscita la season première di un’altra serie ben nota agli spettatori, Games of Thrones. Fin dai suoi inizi la serie prodotta dalla AMC si è imposta come uno dei fenomeni più possenti degli ultimi anni, rivoluzionando sia lo strumento televisivo che  il genere horror zombie. Serie pigliatutto come la sopra accennata Games of Thrones, con la completa latitanza di significati di qualsiasi genere, la mediocre ricerca dei più bassi strumenti di accaparramento dello spettatore, probabilmente non avevano molta speranza al confronto. Nonostante la loro proliferazione, anche grazie allo zelante impegno cerebrolesivo della HBO e più in generale di un certo mainstream.

Il primo riferimento lampante della serie è evidentemente ad uno dei capolavori del genere, il 28 giorni dopo di Danny Boyle. L’introduzione all’apocalisse operata da TWD ricalca infatti l’immaginario apertosi grazie al film in questione: una terra spoglia, decaduta, dove regna il silenzio di un inquietante interrogativo. Un punto esclamativo che dobbiamo alla serie (non è infatti presente sul fumetto di Kirman) e che subito introduce nella giusta atmosfera, coadiuvato in questo da una sigla letteralmente inconfondibile. Al riguardo un aspetto può introdurci alla rara sensibilità necessaria per la traduzione in audiovisivo. Come non manca infatti di sottolineare Eric Norris nella sua lunga analisi su ComicVine, all’impatto brutale si preferisce in questo primissimo inizio l’allusione, la tensione tenuta sul filo del rasoio, le dita che -magistralmente- escono lente dalla fessura di una porta con su scritto “non aprire, morti all’interno“. Vi vede di conseguenza la perdita di quel carattere di immediatezza che caratterizza l’opera di Kirkman, l’essere faccia a faccia con la realtà in tutta la sua allucinazione. È proprio però da tale allusione che Rick (il protagonista) vedrà aprirsi di fronte a sé non l’inferno dei morti viventi tanto amato dai fan dello splatter, quanto uno scenario il cui sentore è quello delle cataste di morti stese lì senza che alcuno sia lì a piangerle, un mondo in balia della dimenticanza e della fine dell’uomo, ancor più che dell’avvento dei walkers.

E’ la dimensione umana a venire meno, la riduzione delle variabili esistenziali alla mera sopravvivenza, tanto potente da riportare umani e walkers ad una comune condizione, poco meno che cannibalismo, ma ben oltre la mimica dell’homo homini lupus. È la stessa Fox ad ammonirci, in uno dei trailer preceduti all’inizio della serie. Qui finisce l’innocenza, oltre questa porta gli esseri umani muoiono e rivivono, o vivono morti dentro. Forse l’ha detto lo stesso Governatore (interpretato da David Morrisey), ma qui o uccidi o muori, oppure muori e poi uccidi. The Walking Dead -anche qui citiamo Norris- non va preso alla leggera. Fin da subito è brutale, quasi crudele, in onore al genere horror zombie da cui proviene (da sempre più votato all’orrore che al terrore). La parabola che segue è infatti analoga a quelle di uno dei geni ispiratori di Kirkman, Romero, una discesa verso l’animo più profondo dell’umano, quasi una piccola rivelazione dantesca che filtrata dalle inquietudini infernali finalmente giunge a riscrivere ciò che siamo. È proprio però l’indefinitezza nella quale i personaggi sono ora liberi di spaziare, svincolati dalla ritmica ossessiva del classico film zombie facilmente abbandonabile allo sparatutto, che invece di spingere verso tempi morti capaci di “annacquare” la trama la rivitalizza dandole uno spessore unico e proprio per questo rivoluzionario.

Ad allargarsi è infatti l’orizzonte relazionale, perdendo -lo ammettiamo- quello straniamento fatto di ombre ed incubo, qualcosa di simile ad una dinamica interattiva alla Resident Evil. I personaggi sono insomma meno soli, ma con essi matura una condizione più propriamente politica, una parabola che ne fa il microcosmo del delicato meccanismo di riproduzione e controllo della violenza interna quanto rivolta all'”altro” che minaccia il nostro piccolo equilibrio. C’è meno McCarthy, perché manca forse La Strada senza ombra di essere umano in vista, ma non per questo manca la crescente crudeltà a lasciare fuori l’estraneo che ci ha sparato addosso, ci ha puntato l’arma contro, ha una pistola con sé, potrebbe essere armato, o magari ci guarda male o potrebbe mettere a rischio la nostra incolumità. È così che i fili che intrecciano i destini di personaggi di enorme portata e dinamismo (uno su tutti Shane), vanno a definire una strada dall’anarchia post-apocalittica verso il pretorianesimo di un mondo fatto di uomini armati, fino a giungere alle vie di un totalitarismo proiezione di una volontà di pace tanto forte da bypassare anche i dati più palesemente evidenti. In questa chiave Woodbury, la città del governatore, la libera comunità di sopravvissuti ridisegna una posizione precisa dell’uomo come vittima e concausa di una realtà catastrofica direttamente derivata da una barbarie senza controllori, da un estetica di abbandono dell’etica.

L’aspetto impressionante è che nella contrapposizione tra la libera città-prigione e l’oppressione di un quieto quartiere coloniale nulla è lasciato ad una facile esaltazione dell’eroe buono Rick incipiente nella propria lotta al crimine da sceriffo armato di distintivo e buoni sentimenti. Specie perché, mai abbandonata ad automatismi, la trama muove in maniera imprevedibile -mutuando da Kirkman una certa infame tendenza a far morire i personaggi senza il minimo preavviso. È l’assenza di senso ad essere estesa magicamente sullo spettatore, quasi non più tale ma anzi partecipe della scena, colpito come i personaggi da quella spirale che rende ogni sopravvissuto irrinunciabile dopo che un altro è scomparso. L’effetto contaminazione, che sporca tutti i personaggi -destinati a trasformarsi in qualunque modo muoiano- ne fa oggetto di una pesante catena spesso letta come un destino ineluttabile e crudele che -mescolandosi con un crescente istinto alla sopravvivenza- ne fa vittime e carnefici, odio per aver troppo amato, amore perché circondati di odio. Come se -vicini a quello straordinario personaggio che è Morgan– si ritrovassero a condividere con il protagonista di un famoso lavoro di Oscar Wilde l’essere coloro che hanno ucciso la cosa che amavano. È proprio questo il paradosso che attraversa come un leitmotiv The Walking Dead, la morte come atto di carità a chi soffre e non può farcela, come necessità verso chi è morto ma tornerà presto in vita, come costrizione ad uccidere chi è ormai sui binari morti di chi sa solo ammazzare e sopravvivere (una dinamica non nuova alla letteratura americana, vedasi la voce Uomini e Topi).

Chi uccide sopravvive, e ogni personaggio -da Rick, a Shane, a Carl– è costretto a convivere con questo monito appeso sulla testa. Le reazioni sono diversificate, fin anche ad essere non-reazioni, trionfo dell’ignavia che colpisce proprio le società armate. È Rick il fulcro, e allora quando si tratta di ammazzare a sangue freddo un prigioniero, l’uomo di fede si rifugia nella Bibbia, la donna vissuta per anni sotto le botte del marito scappa, la first lady lascia l’incombenza al marito ritrovato (dopo essersela spassata con il migliore amico di lui, perché credeva Rick morto).

Non c’è però solo miseria in The Walking Dead, né l’acre terrorismo psicologico imbellettato di critica sociale che in realtà è solo splatter. Proprio in queste tenebre della morale infatti risplendono potentemente i battiti vitali di qualcosa di eminentemente umano. Lontano da machismi da texano armato di doppietta, il sacrificio è anch’esso infatti uno dei punti chiave dell’opera. Il sacrificio di Lory per la figlia nata in mezzo ai cunicoli infestati di zombie ferocemente affamati, ma anche quello di una forza dal piede leggero dove tutto è disperazione e morte. Quella di Deryl alla ricerca del fratello e di Sophia, quella di T-Dog morso e fatto in quel momento per salvare l’unico personaggio che in effetti con lui non aveva avuto quasi nulla a che fare. Il vero messaggio di The Walking Dead è che la resa non è vicina, anzi è l’ultima a morire anche quando la speranza è sepolta da un pezzo. Ovvio poi che se si riesce a legare lo spettatore inestricabilmente anche ad un personaggio insopportabile come Andrea, a metà tra la casalinga piagnucolosa e l’Eva Braun, allora i risultati in quanto ad audience si sentano. Ne origina un pathos la cui intensità deriva da ben più che qualche imbecille che corre inseguito da comparse trasandate in attesa di assaggiarlo. Se poi l’apporto delle musiche è assolutamente straordinario, e con esso la cura maniacale per i dettagli e la qualità dell’immagine, rimane poco da chiedersi. E’ solo il rumore di quando la televisione sconfina nell’Arte.

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