I rapporti tra il governo nazionalista indù di Narendra Modi e la presidenza Trump: contraddizioni, punti di contatto e possibili divergenze

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La svolta nazionalista della politica indiana cominciata con la vittoria del Bharatiya Janata Party (BJP), che a partire dal maggio 2014 ha portato nel paese un nazionalismo religioso e culturale dai toni repressivi e violenti e rafforzato l’ostilità nei confronti della popolazione musulmana, sembra aver determinato a Nuova Delhi un generale consenso verso il nuovo presidente repubblicano Donald Trump ed il suo programma elettorale, soprattutto in materia di lotta al terrorismo jihadista e rapporti con l’Islam, questione pakistana e commercio internazionale.

A dimostrazione della fiducia riposta dall’esecutivo indiano nell’amministrazione Trump, lo stesso Primo Ministro Narendra Modi, già leader dell’organizzazione paramilitare della destra ultranazionalista indù (RSS), ha dichiarato di essere entusiasta di poter lavorare con la nuova squadra di governo repubblicana per portare i rapporti bilaterali tra India e USA verso nuove vette, senza però considerare il forte sostegno assicurato a The Donald da numerose organizzazioni cristiane integraliste che definiscono gli induisti come pagani da convertire.

Da parte sua Trump, dopo un inizio di campagna elettorale segnato da dichiarazioni critiche verso l’India ed i suoi abitanti accusati di essere tra i principali responsabili dell’invasione di manodopera straniera a basso costo che danneggia i lavoratori statunitensi, ha lodato gli indiani per il loro contributo allo sviluppo della civiltà mondiale e, in particolare, della società statunitense, promettendo di collaborare con gli “amici indù” uniti nei valori della famiglia e del lavoro per una politica estera statunitense forte e decisa nel continente asiatico, con l’intento di guadagnare il sostegno della comunità indiana immigrata negli Stati Uniti tradizionalmente schierata con il partito democratico. 

Così si è espresso anche Shalab Kumar, industriale e filantropo indo-americano tra i principali finanziatori della campagna elettorale del Tycoon, che ha più volte ricordato l’amicizia esistente tra India e Usa oltre a prevedere un forte incremento degli scambi commerciali tra i due paesi accompagnato da un inasprimento della lotta al terrorismo islamico con il pieno sostegno di Trump alle forze armate indiane nei c.d. bombardamenti chirurgici contro le basi dei principali gruppi terroristici pakistani nemici del governo indiano.

La problematica questione del Pakistan, lungi dall’essere risolta con operazioni militari e d’intelligence senza una più ampia strategia di de-radicalizzazione a livello sociale, è da mesi al centro dell’agenda politica del Premier indiano impegnato a intensificare la propria opera diplomatica nel tentativo di sensibilizzare le cancellerie internazionali sulla necessità di schierarsi apertamente contro Islamabad per isolare il paese a livello internazionale ed arginare, così, il fanatismo religioso, e la violenza che ne deriva, che stanno oramai permeando l’intero tessuto sociale.

Questo nuovo atteggiamento indiano, più aggressivo e interventista, si riflette anche nelle dichiarazioni di Trump che, in linea con l’opinione del governo Modi e l’islamofobia imperante della sua campagna elettorale, ha descritto il vicino indiano (a maggioranza mussulmana) come uno dei paesi più pericolosi al mondo e l’India, insieme agli Stati Uniti, come una vittima del terrorismo islamico, lasciando intravedere la possibilità di un cambio di paradigma storico nelle relazioni controverse, ma apparentemente inossidabili, tra Usa e Pakistan che vedono i primi coinvolti nella vendita di armamenti e nelle attività dei servizi segreti di Islamabad (da sempre al servizio delle correnti jihadiste) fin dagli anni Ottanta.

Nell’attuale scenario internazionale, però, il presidente americano neoeletto, oltre a stigmatizzare il Pakistan definendolo la culla del terrorismo internazionale, ha anche espresso preoccupazione per il possesso di Islamabad di armi nucleari e per le affermazioni del Ministro della Difesa pakistano che nei mesi scorsi ha di fatto evocato la possibilità di una guerra nucleare contro l’India.

A riguardo, Trump si è offerto come mediatore tra il governo indiano e quello pakistano per tentare di risolvere la difficile questione del Kashmir, una regione contesa dai due Stati fin dal 1947 e che oggi l’esercito di Modi sta brutalmente occupando combattendo contro gli insorti kashmiri appoggiati dal Pakistan (che da decenni usa i taliban come arma di guerra contro lo Stato indiano).

L’interesse preminente di Modi nella regione sarebbe, dunque, quello di accreditarsi Washington come principale alleato in chiave antimusulmana e anti-pakistana, oltre che anticinese, per guadagnare peso sul piano sia commerciale che politico e proiettare l’India verso una posizione di riconoscimento internazionale più prestigiosa.

Affinché ciò avvenga, Trump dovrebbe dare seguito anche alla promessa di avviare una vera e propria guerra commerciale contro Pechino (alleato del Pakistan) su ogni fronte: dalle politiche monetarie alle regolamentazioni sull’export del WTO, fino al groviglio geopolitico del Mar cinese meridionale dove Trump vorrebbe incrementare la presenza militare americana, servendo in tal modo gli interessi geostrategici indiani nell’area.

Questo riorientamento della politica estera statunitense in Asia, da tempo auspicato ed atteso dagli indiani, richiederebbe un rafforzamento dei legami degli Stati Uniti con le gradi e medie potenze asiatiche, prime fra tutte l’India di Modi, legata alla Repubblica popolare cinese da un rapporto obbligato di interdipendenza, che sarebbe disposta ad appoggiare una nuova “guerra fredda” condotta da Washington contro la Cina, interpretando un rallentamento del suo storico rivale come un’opportunità di crescita unica per l’economia indiana ed un modo per rafforzare i rapporti economico-commerciali con gli States.

Questa rinnovata amicizia tra Usa e India (e la volontà di quest’ultima di non diventare un vassallo di Pechino), oltre agli interessi della Russia “filo-trampista” sulla Siberia minacciati dall’egemonia regionale cinese, potrebbero indurre a credere alle ultime esternazioni di Trump relative a possibili sanzioni commerciali contro la Cina. Allo stesso tempo, però, bisogna considerare anche la volubilità dimostrata più volte dal presidente neoeletto ed il grande peso economico che la Cina possiede in Asia, il cui sviluppo infrastrutturale, commerciale e industriale è sempre più legato alle sorti della Repubblica popolare di Xi Jinping a cui né gli Usa né altre potenze possono sostituirsi per mancanza di risorse in termini di mercato ed investimenti potenziali.

Sul fronte economico, oltre ai rapporti diretti del Tycoon con diversi imprenditori indiani che hanno sollevato il problema del conflitto di interessi, Trump ha minacciato di applicare una tassa del 35% per i beni esportati negli Usa da Paesi in via di sviluppo suscettibile di danneggiare profondamente l’export indiano di prodotti informatici e tecnologici, e di voler  imporre una tassa del 15% alle imprese americane che esternalizzano la produzione, infliggendo, se ciò fosse vero, un duro colpo anche al comparto gestionale e di servizio di numerose compagnie che impiegano migliaia di giovani indiani nel subcontinente tra call-center e servizi per l’assistenza ai clienti.

Per contro, però, il Tycoon ha promesso anche un taglio apprezzabile della corporate tax che renderebbe gli Usa uno dei paesi più appetibili per gli investitori stranieri, tra cui compaiono anche numerose multinazionali indiane desiderose di fare affari negli States, e che determinerebbe un ulteriore avvicinamento fra Trump, l’India (in cui gli investimenti americani per il periodo 2014-2016 hanno raggiunto i 70 miliardi di dollari) e il leader neoliberista Modi.

Infine, a proposito di immigrazione, lo stesso Trump, dopo aver annunciato la riduzione delle agevolazioni di cui godono molti lavoratori dell’IT indiano negli Usa grazie al visto H1B che consente loro un ingresso privilegiato nelle grandi compagnie con sede negli States, ha poi elogiato i giovani talenti stranieri che si formano nelle più prestigiose università americane e che “dovrebbero restare a lavorare nella Silicon Valley”, senza chiarire, pertanto, la posizione della futura presidenza repubblicana in materia di politiche per l’immigrazione né se sia davvero intenzionato ad annullare l’H1B in linea con la sua posizione protezionista nel mercato del lavoro.

Ciò premesso, a seguito di una campagna elettorale scorretta e ricca di messaggi contraddittori lanciati dal candidato repubblicano sulle future misure di politica interna ed estera, è difficile prevedere l’atteggiamento e la linea politica della nuova amministrazione Trump.

Chiaro è, invece, il tentativo dell’attuale governo filoamericano di Modi di portare avanti una politica di avvicinamento all’imperialismo statunitense per servire le ambizioni del nazionalismo aggressivo della destra reazionaria e integralista indiana che mira alla formazione di una Bahrat Mata (Grande India) moderna e militarizzata capace di affrontare i suoi avversari tradizionali (in primis lo Stato pakistano e la Cina) grazie, anzitutto, all’aiuto statunitense.

Tuttavia non è affatto certo che la nuova presidenza americana sia in grado, o desideri realmente, rompere il complesso gioco di equilibri che da sempre caratterizza le relazioni tra Usa, India, Cina e Russia, e sospendere le proprie attività nel Pakistan fondamentalista per assecondare gli interessi geopolitici indiani nella regione e continuare a sostenere il governo Modi nelle sue riforme interne e nei suoi indirizzi di politica estera.

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