In tutto il mondo si parla della situazione della TV nel nostro paese: e ovunque viene definita un’anomalia. Ma lo è davvero? Da sempre i media sono detenuti da personaggi potenti e influenti socialmente. E allora, che cosa abbiamo noi di tanto diverso dagli altri? Cerchiamo di capirlo. Il felice arrivo in Italia della TV, dopo una serie di sperimentazioni, si ha ufficialmente con l’inizio di trasmissioni cicliche il 3 gennaio del 1954. La festa e “l’allegria!” però finisce quasi subito, appena si capisce che il nuovo medium porta con sé enormi possibilità economiche, per lasciare spazio ad azioni legali, soprusi e molto altro, che gli spettatori non vedono perché al di qua del tubo catodico. Ripercorriamo allora, “molto velocemente”, le tappe giudiziarie e legislative che accompagnano l’evoluzione dell’aggeggio più amato dagli italiani. Proviamo però a farlo in maniera imparziale, senza valutazioni politicamente influenzate. Lo so, non è facile. Infatti ho detto proviamo. Già dai primi anni la Corte Costituzionale, è costretta a duro lavoro: i privati vogliono banchettare al tavolo dei proventi e l’esempio del modello BBC, “informare, educare, divertire”, fortemente voluto dal primo grande capo dell’emittente radiotelevisiva John Reith alla metà degli anni ’20, a noi, proprio non andava a genio. In Italia i privati vogliono guadagnare e cercano di incunearsi nel mercato a scapito del servizio pubblico monopolista, ma con la sentenza 59/1960, la Corte Costituzionale, ribadisce con forza la necessità della riserva statale. I motivi sono le frequenze, che oggettivamente sono risorsa scarsa; poi, con lo Stato garante, si evitano monopoli o oligopoli privati. E soprattutto, in rispetto degli art. 21 e 43 della Costituzione si mantiene il giusto tasso di pluralismo, fondamentale per la giusta formazione e crescita politica, economica e sociale degli individui. Qui ci starebbe bene anche il rispetto dell’art. 3, pilastro della Costituzione, che richiede la rimozione da parte dello Stato di tutti gli ostacoli che impediscono l’uguaglianza tra i cittadini (ma dimmi tu, anche la legge è uguale per tutti… scusate, ci vuole imparzialità). Ma i privati non mollano, i soldi che girano intorno alla giostra fanno davvero gola. E così, dopo vari richiami informali e ricorsi, arriviamo alla sentenze 225 e 226 del 1974: qui si accetta che la riserva statale possa essere elusa, ma solo per le ritrasmissioni di emittenti straniere, dietro un rigido impianto autorizzativo ( in Italia, ma ve lo immaginate? No? Bravi, perché non c’è mai stato). La 226 in particolare autorizza i privati alle trasmissioni, ma solo a livello locale, nel settore dei servizi via cavo. Questa viene chiamata “sentenza decalogo” per una serie di punti che vengono consigliati al legislatore, se mai decidesse di fare una legge in merito. Una sorta di invito a farla una legge, e coi controbaffi: una roba pazzesca, che possa garantire una serie di cose importanti, tra cui garantire l’indipendenza del servizio pubblico dal potere dell’Esecutivo, impostare limiti alla pubblicità, garantire il pluralismo del punto di vista, il diritto di replica, il di rettifica e molto altro. Sembrerebbe che siamo finalmente somiglianti ad un paese normale. Una legge viene fatta, ed è la 103/1975: con questa si accolgono buona parte di queste indicazioni. “Forte!” Direte voi. No, neanche per niente, perché a breve distanza, la Corte Costituzionale con la sentenza 202/1976 dichiara illegittimo l’art. 1 della legge 103/75: proprio l’articolo che ribadisce la necessità e legittimità della riserva statale. E così, si apre ai privati per la trasmissione locale via etere, ma, si raccomanda, con un rigidissimo impianto autorizzativo. In Italia. Dove facciamo le villette a schiera dentro i vulcani in attività con tutti i permessi del caso? No, grazie. Questo apre una piccola falla, ma a breve diventerà una voragine. I privati si lanciano nelle trasmissioni locali, ma non solo: grazie ad una sincronizzazione scalare di pochi minuti, in alcuni casi di pochi secondi, riescono ad offrire il programma a livello nazionale. Fatta la legge, trovato l’inganno. Capito? Fanno a livello di tutte le regioni in cui sono presenti lo stesso programma e ottengo una trasmissione nazionale, che però grazie allo sfalsamento di pochi minuti è, teoricamente, legale.
Così iniziano una serie di azioni giudiziarie volte a fermare questo tipo di consuetudine da parte dei privati. Quando, stranamente, il cerchio si stringe pericolosamente intorno ad un emergente imprenditore lombardo che sta diventando una realtà sempre più imponente, il Governo interviene a favore dei privati con il decreto legge 807 del 1984, che diventerà poi la legge 10/1985, legge che sui libri di Diritto, viene anche chiamata legge “salva Berlusconi”. Per i curiosoni che, il Governo in carica era quello presieduto dell’On. Bettino Craxi (durato dal 04.08.1983 al 01.08.1986), con una coalizione politica tra DC, PSI, PSDI, PRI, PLI, la IX Legislatura. Questa disciplina però è transitoria e qui “l’affare si ingrossa”, come disse Cicciolina in un famoso film. Perché? Perché a questo punto la Corte si stizzisce, in quanto la legge è in netto contrasto alle sue indicazioni, ma proprio grazie al regime di transitorietà, con la sentenza 826/1988, può esprimere il suo parere negativo ma è costretta a salvarla dalla incostituzionalità. Come se rubi un quadro, ti beccano con la refurtiva in mano, ma tu dici “lo sto andando a posare dove l’ho preso, ma non mi ricordo questo posto dov’è. Datemi tempo, cribbio!”. Allora arriva a chiarire il tutto la famosa legge 223/1990 anche detta legge Mammì (s’annamo a divertì, Mammì, Mammì). Una legge di sistema, finalmente, mica bruscolini, che chiarisca tutto: antitrust, regime della pubblicità, meccanismi di garanzia, e molto altro. “Finalmente, tutto a posto” direte voi. E no! Perché in realtà questa legge non fa altro che fotografare il duopolio esistente (chiamato Rai-Fininvest) e cerca di farlo passare per la normalità. Capito? Fai la legge per come stai messo. Ossia: mi beccano col quadro in mano? Faccio una legge che dice: “da oggi si puniscono tutti i furti, esclusi quelli che vedono coinvolti individui beccati con un quadro in mano, che se lo possono tenere impuniti”. Direi di no, non mi sembra proprio tutto a posto. E se ne accorge anche la Corte, che con la sentenza 420 del 1994 dichiara incostituzionale parte la legge Mammì perché, a suo dire, non garantisce il pluralismo. E intima tutti i privati che hanno in concessione le frequenze a mollare tutto ciò che eccede le due reti nazionali (ricordo che le frequenze si danno in concessione perché sono un bene dello Stato, non del primo che le occupa). Chiaro? Se ne hai 3 ne molli 1, se ne hai 100 ne molli 98. Banale, nella sua semplicità. Almeno così sembra. E in questa occasione, la Corte dice che il tutto va risolto dal legislatore entro e non oltre l’agosto 1996. Ovviamente tale data passa senza che nulla accada, ma nel 1997, con leggero ritardo, arriva salvifica la legge Maccanico (249/1997): questa stabilisce che nessun soggetto può detenere più del 20% delle frequenze in ambito nazionale (per i curiosi, in totale erano 11) per cui non più di 2. Ma, colpo di scena, in via del tutto transitoria, si possono mantenere in piedi le reti di chi supera il limite, ma solo fino a che non ci sia un buono sviluppo di altre tecnologie (satellite e digitale terrestre) così che la migrazione possa avvenire in maniera indolore, salvaguardando posti di lavoro sacrosanti. Fantastico, però assolutamente in contrasto con la sentenza 420 del 1994. Ma questo sembra essere solo un dettaglio. A questo punto tutto sembra perduto per la legalità, sembra che in Italia vince davvero chi ce l’ha più lungo (in senso metaforico, altrimenti avremmo una monarchia assoluta guidata da Rocco Siffredi). Ad un tratto però, lo spiraglio: proprio allora, diventa il capo del Governo un tizio con i baffi, amante del mare e delle barche a vela: tale Massimo D’Alema, notoriamente di sinistra. “Adesso gli fa vedere lui come ci si comporta” penserete voi, cuccioli e ingenui. “E’ arrivato baffone, finalmente!”.Infatti batte i pugni sul timone e dice: “Basta! Ora le frequenze le assegniamo con una gara di Stato!” Mette su una commissione nominata dal Ministero che non vi dico da chi fu presieduta per questioni di igiene, e nel 1999 viene fatta davvero la gara, proprio come in un paese normale. Non fosse che i requisiti per partecipare (e vincere) sono ai limiti dell’assurdo, a meno che non sei già un colosso del settore. E’ fatta, pensano. Ora vinciamo e tutto è legale. Ma come nei peggiori film horror, spunta un mostro. Così, dalla palude, senza un minimo di preavviso. Che poi che fanno questi mostri tutto il giorno nelle paludi, io non l’ho mai capito. Ma questa è un’altra storia. Il mostro si chiama Francesco De Stefano. Un tizio semi – sconosciuto (era il “capo” della romana “TVR Voxson” e altre emittenti locali da Nord a Sud) che non solo partecipa alla gara assurda, ma ha tutti i requisiti a posto. Permessi, capitali (si chiedevano 12 miliardi interamente versati!) e tutto tutto tutto. Il panorama politico è sconvolto. E adesso? Addirittura il mostro chiede ben 2 frequenze, per i canali “Europa 7” e “7 Plus”. Roba da matti, la gente non ha ritegno. Inizialmente sono tutti sbigottiti, anche perché a Rete4 del gruppo Mediaset non viene assegnata frequenza alcuna. Al sig. De Stefano ne viene assegnata solamente una, con la scusante che i 12 miliardi versati erano da intendersi per frequenza richiesta. In realtà non è vero, il sig. De Stefano è uno tosto, ricorre al TAR del Lazio, poi al Consiglio di Stato: e, cosa assurda, questo gli da ragione. Ma l’Italia è così, un paese creativo. Per cui a questo signore non danno nulla, neanche una frequenza, così si impara a disturbare le gare fatte ad hoc. Alla fine, dopo una svalangata di appelli e ricorsi (tutti vinti dal mostro della palude) si arriva anche alla Comunità Europea, e anche questa, preoccupata per il caso italiano e per la paura che questo si manifesti anche in altri paesi della Comunità, gli da ragione. Teoricamente tutti gli danno ragione. Praticamente lui spende un sacco di soldi per affittare sedi, comprare cose da mandare in onda, (la legge gli impone di cominciare a trasmettere entro sei mesi dalla disponibilità effettiva della frequenza) pagare il personale (per una TV nazionale in media 700 dipendenti). Ma in onda lui non ci andrà. La storia sembra impossibile e senza fine, ma interviene ancora la Corte, con la sentenza 466/2002: si ribadisce quanto già detto nel 1994, ossia che un privato non deve poter controllare più di due reti nazionali, e intima di togliere di mezzo Rete4 e spedirla sul satellite, o sul digitale, o dove meglio crede, basta lasci a disposizione di Europa 7 la frequenza entro e non oltre il 31/12/2003. Finalmente! Una data, cribbio. E ora voglio proprio vedere. Che si fa? Il Ministro preposto dell’epoca, On. Gasparri, in una torrida estate, mette insieme un disegno di legge che prende il suo nome: si prevede il riassetto globale del sistema radiotelevisivo e si stabiliscono i termini per l’avvento del digitale terrestre. La cosa è chiara: nuova tecnologia, più frequenze, basta scocciature. E una volta per tutte. Il cosiddetto decreto “salvareti”, deve essere approvato però in tutta fretta, perché il 31/12/2003 è molto vicino, e questo sarebbe l’unico modo di dare a Rete4 la possibilità di non interrompere la trasmissioni e consentire a Rai3 di continuare a percepire introiti dalla pubblicità. D’altronde si sa, chi fa da sé fa per tre. E così la legge Gasparri, che porta con se un gran polverone, arriva in Parlamento e passa, insieme ad un fracco di polemiche. Sembra fatta, manca solo la firma dell’On. Presidente della Repubblica Carlo Azelio Ciampi. Ma il briccone che fa? Non la firma e la rimanda alle Camere! Già. E’ il 15 dicembre, il termine sta per scadere ma il Presidente la ritiene incostituzionale perché non tiene contodella sentenza 466/2002 (non più di due reti) e soprattutto, non parla di termini di tempo precisi: cioè non dice chi eccede le due reti, in che tempi debba mollare il surplus. Rimanda vagamente ad un futuro momento in cui il digitale sia sviluppato a sufficienza e la copertura sia degna. Degna di che, non è dato sapere. Seguono attimi di panico, botte e risposte tra le forze politiche, insulti. Ma la posta in palio è troppo alta e così, il 24/12/2003 viene ripresentato e approvato con fiducia il salvareti leggermente modificato, che proroga la storia fino al febbraio 2004, mese in cui la Gasparri diventa legge. Questa consente a chi ha reti in eccesso di poter proseguire le trasmissioni, almeno fino a che lo sviluppo del digitale ne garantisca una migrazione indolore. In questa occasione, con la conversione del decreto in legge, l’unico privato con più di due reti nazionali nonché On. Presidente del Consiglio dei Ministri, Silvio Berlusconi, lancia ai media un’affermazione molto forte sulla Corte Costituzionale, parlando di intervento politico che sovverte il volere del popolo. Il tutto appare anche in un articolo di un importante quotidiano (qui) nel lontano 2004: il succo è che la Corte è composta da 5 esponenti di sinistra e 5 di destra. A questo punto Europa 7 è praticamente tagliata fuori, fa ricorso al TAR che gli da torto, viene detto che la Gasparri non è anomala, ma lo era la Maccanico. Insomma, non si capisce più niente. Teoria del caos: fai casino, che mentre la gente si distrae, tu fai come ti pare. Allora Europa 7 va dalla Corte di giustizia Europea, che dopo una udienza del 2006, gli da ragione il 31 gennaio 2008 e intima un risarcimento economico. Afferma anche, in questa occasione, che il sistema televisivo italiano è anomalo, anzi precisamente è “non conforme” alla normativa della UE, per obiettività e trasparenza. Insomma, date ad Europa7 le frequenze e 350 mila euro al giorno dal 1/01/2006 al 01/01/2009. Deve essere chiaro che di mezzo ci sono state altre forze politiche che avrebbero potuto intervenire, ma non lo hanno mai fatto (tra cui l’Ulivo di Prodi & Co.): anzi, anche da sinistra furono prese le difese della Gasparri. Ci si abbaia tanto, ma non ci si mozzica mai. Ancora una serie di corsi e ricorsi, ma ormai sta di fatto che siamo al digitale terrestre, le frequenze sono moltiplicate, tutta Italia deve migrarci se vuole vedere la TV e fruire delle reti nazionali, e vai col tango. Se Maometto non va alla montagna…Il Consiglio di Stato boccia il ricorso ulteriore di Europa 7 , e il 31 gennaio 2009 intima lo Stato Italiano (lo Stato?) a pagare un risarcimento di, udite udite, un milione di euro a Europa 7 per il danno subito (per mancato introito ne avevano chiesti più di due miliardi di euro). Comunque, anche se Di Stefano non molla e dichiara che comunque entro il 2011 inizierà le trasmissioni, ma state certi, la questione non è ancora chiusa. Perché vi ho raccontato (in modo prolisso, rozzo e inesatto) questa storia? Per dire che secondo la mia modesta opinione, è vero. Indipendentemente dal quadro politico di riferimento, la verità è che vince sempre chi ce l’ha più lungo. E non vi fidate di chi vi dice che le dimensioni non contano, è solo un altro che come voi e come me, ce l’ha piccolo. Non è questione di orientamento politico: il sistema radiotelevisivo italiano è un’anomalia, certificata. L’orientamento politico è un qualcosa rimasto solo agli elettori, e serve ai gruppi di umani per insultarsi e combattersi. Perché i politicanti nel nostro paese, al netto di qualche eccezione che non ha troppo potere, sono un’unica grande famiglia, e pure felice. Per cui non vi meravigliate se vi fanno una prepotenza, c’è chi è messo peggio di voi e subisce torti molto peggiori. E rassegnatevi: oggi in questo paese, senza l’appoggio di qualcuno, dovrete sudare sette camicie per qualsiasi cosa, fosse anche il voler aprire una strafottutissima lavanderia a gettoni.
One Response to L’Opiglione: TV, l’anomalia italiana per (Sua) eccellenza.