Immaginate la “ruvida polpa” di una natica maschile, e una croce sopra, incisa con un apriscatole. Vi scapperà una smorfia di raccapriccio, e penserete ad una pratica blasfema di qualche rituale satanico, o ad una punizione esemplare per i lussuriosi di lungo corso; ma quella croce finì sulla chiappa di Joe il Grande per ben altre ragioni. Un tale di nome Danny, di professione beone e perdigiorno, ereditò, uscendo di prigione, una casa nella piana di Monterey. Ma Joe? Un attimo… ci arrivo! Dicevo… questo Danny, dedito all’alcol, ai furtarelli, e a sprimacciare gonnelle, decise di spartire la sua imprevista fortuna con una combriccola di amici di pari levatura, verso i quali sentiva una comunanza d’intenti nella più bieca dissolutezza, nelle solenni bevute e nell’ozio. Joe il Portoghese faceva parte della comitiva.
Quest’ultimo, e gli altri quattro senzatetto, debosciati seppur eroici, si muovono tra le pagine di “Pian Della Tortilla” di Steinbeck, districandosi tra varie peripezie ed espedienti, secondo il bandolo alticcio dei loro ragionamenti ingenui o surreali. Gli amici di Danny non brillano affatto quanto a moralità, ma l’autore si astiene dal giudicarli; nobilitandoli quasi attraverso uno sguardo indulgente e paterno, che sotto i baffi se la ride compiaciuto delle malefatte filiali. Il piglio del narratore è divertito, ed il lettore prima o poi finisce con l’esserne cooptato.
I rumori domestici sfumano in un ronzio insignificante, e ti ritrovi protagonista di una strana metamorfosi. Il tuo divano diventa una logora sdraio, i piedi penzoloni e callosi, le brache allentate, mentre ti dondoli al sole nella veranda di Danny; ascolti le chiacchiere sui paisanos ; tracanni vino corposo, e il tannino risale a tal punto che quasi fatichi a ricacciare un rutto alla bocca dello stomaco; poi finisci nel pollaio della signora Morales a rubare galline; e ti dimeni sotto la gonna svergognata di Engracia Ramirez; di notte, infine, brancoli nella foresta, al chiarore di luna, senti un trepestio di passi nel fogliame rinsecchito, e gli alberi affiorano dalla nebbia bisbigliando parole; e tu? Guardati! Sei diventato a tutti gli effetti un amico di Danny.
Eppure non ti sei schiodato di una virgola, comodamente allungato sul divano, o sprofondato del tutto, in caso di molle “schioppate” per vetustà. Vi chiederete cosa c’entra in questo discorso la storia della natica sfregiata: c’entra eccome. Be’, di sicuro segna irrimediabilmente l’immaginario del lettore, ma l’ho tirata in ballo perché risulta esemplificativa di uno dei leitmotiv del romanzo: l’amicizia. Quel vincolo di solidarietà misterioso e contraddittorio che spinge ciascuno di loro a condividere il destino degli altri e a parteciparvi. Gli amici di Danny sono avvinti da un legame di tipo quasi cavalleresco, ricordano un po’ i quattro moschettieri in chiave picaresco-sfigata, tradendo a volte una purezza d’intenti che cozza letteralmente con la loro furfanteria maldestra. Eppure, in fondo a quella propensione bonariamente criminale, serbano il senso dell’onore, e quando Joe il Portoghese deruba uno degli amici, sottraendogli i denari accumulati per comprare un candelabro d’oro a S. Francesco, i cavalieri senzatetto gli infliggono l’onta di uno sfregio, come monito permanente a non violare ancora il legame sacro dell’amicizia.
Il finale, imprevedibile, non delude, risultando coerente; e una volta tanto, a mio parere, supera l’incipit di gran lunga. Forse mi sono persa tra i sentieri tortuosi della foresta di Monterey, e ci ho messo un po’ a ritrovare la strada, volevo solo dire che un libro, quando è scritto bene – Steinbeck il Nobel non lo ha vinto certo coi punti della benzina- rappresenta la possibilità di intraprendere un viaggio, nella testa, nel cuore e perfino nelle mutande dei suoi personaggi; avanzando così nella conoscenza di quel pianeta impervio ed accidentato che è l’essere umano. Con “Pian Della Tortilla” è proprio il caso di fare i bagagli.
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