I DANNI DELLA CONCORRENZA FISCALE IN EUROPA

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Manca un modello europeo

Nel campo della tassazione diretta, oggi l’Europa é pervasa da una competizione fiscale che ha trovato e trova legittimazione in una visione liberista di come debba funzionare l’Unione; una visione che ha anteposto una competizione tra Stati al governo comunitario della materia, sebbene ciò costituisca un danno per la maggior parte dei paesi membri e provochi perdite rilevanti di gettito sui redditi prodotti dai fattori più mobili, che devono essere poi compensati a carico di quelli meno mobili (lavoro e patrimoni immobiliari). Non si tratta solo di rimuovere regimi particolaristici “dannosi”, ma di trovare un modello uniforme di struttura fiscale per l’Europa. In un periodo di scarso impegno europeistico dei governanti e di deciso affievolimento di slancio nell’opinione pubblica (a dir poco), indicare questa via può sembrare radicale, ma va comunque posta sul tappeto. La finalità ultima dovrebbe essere sia il recupero del gettito sottratto attraverso la competizione fiscale, compensando, per ciò che riguarda la competizione intra-Unione, i paesi più deboli, sia l’avvio di un processo concreto di sostanziale detassazione del lavoro (che altrimenti rimarrà allo stadio di irrealizzabile esortazione); da ultimo, l’individuazione di fonti di gettito che possano allargare significativamente il bilancio comunitario.

Oggi non solo non esiste un modello europeo per la tassazione diretta, ma non esistono nemmeno codici mutualmente conformi di tassazione e regolazione. Nella imposizione diretta, la convergenza verso soluzioni comuni dei sistemi nazionali consiste solo nell’imitazione di istituti introdotti in altri paesi europei, che i singoli paesi scelgono qua e là in un in un bricolage discrezionale, visto che la varietà di soluzioni date altrove rende difficile far riferimento a una costruzione da prendere come benchmark.
Persino sui principi non vi é uniformità se consideriamo che il principio della progressività dell’imposta personale é disatteso in numerosi paesi che adottano una flat tax (sia pure attenuata dalla graduazione delle deduzioni ammesse). E ciò fa pensare che lo stesso modello sociale europeo stia diventando un’astrazione che attiene a un numero limitato di paesi dell’Unione.

La convergenza non é sempre positiva

Non bisogna pensare, tuttavia, che qualsiasi convergenza sia sempre positiva, o in grado di garantire un più efficiente funzionamento del mercato interno, quando non sia un disegno organizzato con finalità specifiche e di razionalità complessiva, ma solo un puro derivato di inseguimento fiscale per paura di perdere le basi imponibili. Molte spinte alla convergenza derivano dalla giurisprudenza creata dalle sentenze della Corte di Giustizia, la quale, in nome di un malinteso fondamentalismo con cui interpreta la libertà di stabilimento – a partire dalla infelice sentenza Cadbury Scwhrepss – é stata sempre poco attenta alle conseguenze sistemiche delle sue sentenze.

Valga per tutti l’esempio di come si sia esteso agli inizi del ‘2000 il sistema di Partecipation Exempion di tassazione delle holding che prevede, sotto certe condizioni, l’esenzione dei dividendi e delle plusvalenze (e minusvalenze) da partecipazione in capo alla capogruppo. Proprio a suo tempo dei paesi del Benelux, quel sistema ha sostituito progressivamente il sistema di imputazione del credito di imposta sui dividendi (per ciò che era già assolto dall’impresa) in capo al socio, che per lungo tempo era stato elemento distintivo della maggioranza dei paesi Se attraverso le sentenze della Corte si voleva giustamente eliminare un trattamento discriminatorio dei soggetti residenti rispetto ai non residenti avrebbe dovuto seguirne l’estensione del credito d’imposta anche ai dividendi esteri (o ai non residenti), lasciando un intreccio razionale tra tassazione societaria e personale Ma questa strada non avrebbe potuto essere intrapresa che in un quadro di reciprocità fissato da un indirizzo che avesse reso veramente europeo il sistema di imputazione. Questo indirizzo non é mai venuto, lasciando così che si affermass una cosruzione, che se può trovare anche giustificazione sistemica per ciò che riguarda l’esenzione dei dividendi per l holding per eliminare la doppia imposizione economica degli utili infra-societari, non lo trova affatto (o ha basi fragilissime) sia per l’esenzione delle plusvalenze (e minusvalenze), che le é collegato, sia per lo scoordinamento della tassazione societaria e personale. Non si può neppure dire che attraverso la diffusione di questa costruzione si sia posto fine, per ciò che riguarda le holding, alla competizione fiscale, perché questa si é trasferita sul piano ordinamentale nelle legislazioni di alcuni paesi (ad esempio, Regno Unito e Olanda), che facilitano i comportamenti opportunistici consentendo alle società costituite nel paese di applicare la normativa corrispondente e, al tempo stesso, di trasferire in una altro Paese la sede di direzione effettiva e quindi la residenza fiscale,.

Oggi diviene parimenti inevitabile che con lo stesse modalità si diffonda, nell’ambito della competizione in corso per attrarre la sede centrale delle multinazionali, il sistema del patent box. Esso consente una tassazione ad hoc (tra il 5% e il 10%) ai profitti correlati allo sfruttamento dei brevetti. E’ chiamato anche “innovation box” per il suo scopo apparente di incoraggiare l’innovazione e i lavori qualificati nella ricerca e sviluppo, ma che ben che vada remunera la commercializzazione dei brevetti esistenti piuttosto che lo sviluppo di nuovi e si rivela un’altro dei canali per competere fiscalmente. In alcuni paesi si é arrivato a rendere rilevante il 100% del profitto conseguito su prodotti che cadono in questo regime anche quando l’incidenza dei brevetti é secondaria nella loro produzione. L’esito effettivo é che si é costruito un altro canale di tax avoidance che concorre a quei 1000 miliardi di euro di tassazione persa annualmente (secondo le stime dello stessa Commissione)

Potrei andare avanti, citando la convergenza che si é stabilita col regime di tassazione degli interessi di residenti esteri e farei rientrare nel quadro anche l’avvicinamento delle aliquote societarie, avvenuto in una corsa verso il basso che i paesi più grandi hanno dovuto intraprendere e che hanno compiuto allargando la base imponibile. Un procedimento che, seppure potenzialmente neutro per il gettito, non lo é per altre conseguenze: di rendere restrittivi e rigidi i criteri di ammortamento, di indebolire potenzialmente le imprese più deboli e indebitate, di rimbalzare sulla progressività nella tassazione personale, che deve tener conto che altrimenti é reso conveniente alle persone più ricche trasformare i redditi personali in redditi da capitale.

Occorre un gran disegno: lo sono alcuni recenti avanzamenti?

Occorre un gran disegno per la convergenza e l’armonizzazione e non l’occasionalità degli eventi, o della concorrenza, o dei pareri della Corte. Anche coloro che, al di là dei singoli giudizi di merito, pensano che la Corte abbia svolto il compito istituzionale che le è proprio in ottemperanza dei trattati (non è il mio giudizio), convengono che l’azione della Corte non sia, né possa essere, lo strumento con cui le contraddizioni vengono risolte e che la sua attività non può certo sostituirsi al necessario dibattito politico fra i paesi, cui spetta, nelle opportune sedi istituzionali, assumere decisioni.

Sono gran disegni quei tre avanzamenti importanti degli ultimi anni relativi all’eliminazione della concorrenza “dannosa”, alla stretta sui paradisi fiscali e al varo della CCTB?

A) Concorrenza fiscale “dannosa” e “non dannosa”
Solo da metà degli anni novanta é apparso evidente che le azioni elaborate dall’OECD per affrontare il tema dei paradisi fiscali avrebbero incontrato seri ostacoli sul loro percorso (in primo luogo, per l’assenza di credibilità) se gli Stati membri dell’UE non si fossero seriamente impegnati a rimuovere i regimi particolaristici presenti nei loro stessi sistemi tributari, specificamente mirati al capitale estero, di cui beneficiano grandi imprese e grandi patrimoni. Quei regimi sono stati individuati come concorrenza “dannosa”, che ci si preoccupati di distinguere in modo soggettivo da quella “non dannosa”, che non so come definire, (“leale”, “virtuosa”. “benefica”?).

Bene che quella rimozione sia avvenuta e stia avvenendo. Ma non possiamo dire che non permangano “nicchie protette dalla legge” e “angoli oscuri” da cui le imprese possono trarre vantaggio, per esempio in materia di brevetti e di licenze. L’imposizione formale poi non é tutto. Permangono i favori verso chi si trasferisce a cui si garantiscono controlli meno severi che nei paesi d’origine. Anche le basi imponibili giocano un ruolo. E si é affermata la dubbia idea che ogni iniziativa fiscale degli stati nazionali sia accettabile purché non discrimini tra competitori esteri e nazionali. Avrebbe dovuto suggerire qualcosa il fatto che nei limiti del successo della messa al bando della “dannosa” le politiche di riduzione generalizzata delle aliquote e il restringimento della base imponibile tendessero (e tendano) ad affermarsi come la modalità prevalente di concorrenza fiscale, specie nei paesi nuovi membri, spinti dall’esempio dell’Irlanda. La corsa in basso delle aliquote, come ci ricorda anche da molta letteratura economica, può altrettanto distorcere l’allocazione del capitale e delle attività produttive, producendo un effetto spillover negativo sugli stati che la subiscono. Forse dovrebbe sorgere il sospetto che non vi sia concorrenza fiscale virtuosa o leale o benefica. Conosco gli argomenti a favore della concorrenza, ma sono sopraffati dall’evidenza che quella concorrenza “benefica” tende a produrre una distorsione nella struttura della tassazione, come già detto, una perdita di reddito imponibile complessiva che deve essere compensata dall’aumento delle tasse su fattori non mobili o da riduzione nella spesa pubblica. Fornisce, inoltre, incentivi per profit shifting, risulta in un livello inefficiente di beni pubblici, tende a condurre a decisioni imprenditoriali che distorcono il mercato singolo in quanto portano il capitale dove é tassato di meno e non necessariamente dove é impiegato in modo più produttivo.

Quindi: non é un “gran disegno” la rimozione della concorrenza dannosa, anche se un avanzamento. Lo sarebbe se l’armonizzazione dell’aliquota della corporation tax fosse ancora indicata come legittimo obiettivo di medio periodo dell’Unione E, inoltre, se l?unione si indirizzasse verso l’istituzione di controlli omogenei indirizzati a una verifica sui guadagni e le perdite di tassazione che generano differenze in materia di fiscalità sulla produzione e sul lavoro.

I paesi più deboli andrebbero aiutati a competere sulla base dei fattori economici reali, e non offrendo facilities disegnate a ledere le leggi degli altri; per questo (oltre che per altro) é necessario un bilancio europeo più consistente (come argomenterò in seguito se avrò tempo)

Come tappa intermedia, sarebbe almeno opportuno che la differenziazione nella tassazione d’impresa avvenga entro fasce predeterminate (ma basi imponibili comuni) in riconoscimento dei vantaggi di agglomerazione di cui ancora godono i paesi più grandi; oppure: che sia introdotta una aliquota minima di tassazione sulle imprese (direi, non inferiore al 25%), in modo da porre un freno all’esodo continuo di aziende da un paese all’altro all’inseguimento di tassazioni più vantaggiose, spesso ottenuto con vere e proprie campagne di promozione (che non vengono considerate sleali),

B) Il contrasto ai paradisi fiscali
E’ un gran disegno l’azione di contrasto dei paradisi fiscali intrapresa dalla UE sulla spinta del modello OCSE di cooperazione? Indubbiamente é un passo avanti enorme che si sia arrivati affrontare il problema secondo le tre facce con cui si presenta, che vanno tenute distinte tra loro 1) la mancanza di trasparenza e di scambio di informazione, vale a dire il servizio di segretezza che offrono i paradisi fiscali, 2) la mancanza di attività sostanziale associata alla locazione di una impresa in un paradiso fiscale 3) la tassazione bassa o assente su redditi rilevanti (differenziata o meno rispetto ai residenti).

Il progetto OCSE, recepito in sede europea, ha posto il fuoco pressoché esclusivo sul primo problema. Ma ci son voluti 11 anni dalla direttiva risparmio del 1983 per chiudere i buchi nel 2014 e coprire una gamma sufficiente di strumenti finanziari. E comunque, la collaborazione tra paesi sulla base di richieste specifiche e mirate non sembra essere stata particolarmente efficace ad arginare i vantaggi sleali di (regolamentazione ) dei paradisi fiscali se la quantità di fondi tenuti offshore ha subito una potente accelerazione negli ultimi dieci anni.

Oggi, va salutato con soddisfazione che si voglia concretamente superare l’approccio in cui le informazioni erano fornite su richiesta motivata e ci si indirizzi, invece, verso un modello di informazioni automatiche (dall’1/1/2017 per l’interno); é un progetto importantissimo che promette di diventare un nuovo ordine mondiale in materia, se esteso a tutte le piazze finanziarie.

Ma si dovrà vigilare a che gli impegni presi dai paesi siano effettivamente posti in atto, e che gli stessi paesi abbiano effettiva capacità e volontà di far rispettare agli operatori locali la raccolta e trasmissione sistematica dei dati da scambiare (secondo il Common Report e Due Diligence Standard). E si dovrà avere un sistema di sanzioni efficaci per quei paesi che si chiamano fuori. In più va previsto il ritiro della licenza bancaria per quegli istituti finanziari che non collaborano, boicottano o si dimostrino particolarmente attivi nel favorire gli evasori. E non vorrei che la difficoltà e i ritardi a estendere il nuovo standard a tutte le piazze finanziarie sia l’occasione per alcuni Stati (interni e esterni all’Unione) per ritardare la loro implementazione del sistema.

Non dovrebbe esser difficile semplificare i requisiti tecnici per arrivare a un tax player identification number. In un altro campo (della sicurezza) é bastata la volontà globale di farlo per arrivare ad avere accesso alle registrazioni Interpol da ciascuna parte del mondo, semplicemente con un numero identificativo di passaporto; lo stesso dovrebbe e potrebbe avvenire in campo fiscale se ci fosse volontà politica. Ed é bene in ciò che UE e Ocse unifichino le regole, meglio ancora se il processo fosse guidato attraverso un’Agenzia Onu, perché, nonostante L’Europa lo affidi all’Ocse, questa istituzione non ha la sufficiente legittimazione né rappresentatività territoriale farlo diventare globale, né é un organismo intergovernativo.

C) inefficacia e impotenza della disciplina del Cfc
Se, per ciò che riguarda la trasparenza e l’informazione, ci si sta movendo in modo coordinato verso la strada giusta nel depotenziare il ruolo dei paradisi fiscali, per ciò che riguarda il loro uso nella tax avoidance, attraverso l’interposizione fittizie o altre costruzioni artificiali, il contrasto rimane affidato singolarmente ai vari paesi, i quali applicano un decalogo di azioni difensive, attraverso la disciplina delle cosiddette Cfc (Controllede Foreign Companies). Le pratiche di tax planning non scomparirebbero neppure con un regime di informazione automatica completa. Riclassificare i bilanci e attrarre a tassazione in capo al soggetto nazionale tutto o parte del reddito prodotto dalla filiale estera collocata in paesi a fiscalità privilegiata rimane, tuttavia, un procedimento poco efficace e farraginoso. Il contesto europeo fa emergere poi l’eterogeneità su ciascuna delle caratteristiche essenziali condizionanti l’applicazione della disciplina Cfc., dalle restrizioni nella deduzione delle tasse, al disconoscimento di costi di impresa, all’introduzione di ritenute alla fonte su proventi pagati alla giurisdizione sotto accusa, alle presunzioni di residenza delle sociètà, regole sui prezzi di trasferimento, nozioni di controllo e collegamento, monitoraggio dei derivati e dei meccanismi finanziari che concorrono al profit shifting, ecc (il Regno Unito dal 2012 ha, poi, abbandonato la presunzione di tax avoidance nell’attività di un’impresa collocata nei paradisi fiscali). Comunque applicato, l’approccio non é sistemico, implica giudizi soggettivi e in più, fa sorgere complicazioni di carattere amministrativo, incertezze e difficoltà nella compliance o nella dimostrazione della prova contraria o delle esimenti, da rendere attraente, in circolo vizioso, l’ordinamento di paesi impegnati nella competizione fiscale. Si aggiunga che le sentenze della Corte, hanno ridotto molto l’efficacia delle misure protettive, disapplicandole o depotenziandole per paura cha alcune di esse incidessero sul suo modo di intendere la libertà di stabilimento

Le azioni difensive risultano, poi, impotenti quando lo svuotamento dei profitti ottenuti in sede europea é dirottato legalmente in sussidiarie situate in aree a bassa o nulla fiscalità da imprese multinazionali insediate in paesi che riconoscono e ammettono o concordano con il contribuente l’uso di queste pratiche; paesi che puntano più che sulle entrate tributarie potenziali, sulle esternalità che l’insediamento della sede operativa delle multinazionali sul loro territorio può produrre. L’attenzione ultimamente si é appuntata su casi emblematici di multinazionali (Apple, Amazon, Starbruck, Hp, Google e altre) sui quali anche l’Unione ha aperto un’inchiesta, a cui il Lussemburgo si é permesso di non collaborare adeguatamente, rifiutandosi di svelare dettagli del suo sistema di tassazione. Il meccanismo di tax avoidance é abbastanza uniforme. Le multinazionali usano i prezzi delle transazioni interne per attribuire un basso margine di profitto alle attività alle vendite in paesi ad alta tassazione e dove hanno una quota significativa di mercato. Potenzialmente dirigono i profitti nel paese dove é insediata l’unità operativa, ma da questo eseguono pagamenti a sussidiarie create ad hoc per prestiti, uso del marchio o dei brevetti o altri servizi collocate in paesi a bassa o nulla tassazione . Inutile dire che l’headquarter sarà in paesi, quali Lussemburgo, Olanda o Irlanda, dove la tassazione in origine sia bassa, dove non é prevista ritenuta alla fonte su pagamenti per servizi immateriali all’estero, né la pratica sia messa in discussione quando la filiale é incorporata. Può avvenire, per rimanere ai casi concreti, che i profitti pre tasse dichiarati dalla capogruppo europea di Starbucks’, situata in Lussemburgo, ammontino a 500,000 euro su vendite europee per 73 milioni di euro. Tra parentesi, si stima che in Lussemburgo vi sia la sede di 40000 holding. Più clamoroso é il caso dell’Apple; non tanto perché su 57 mld di profitti fuori dagli Usa paga il 2% di tasse, quanto perché incanala i profitti effettivi in pagamenti a tre sussidiarie della sua sede irlandese che non hanno residenza fisica dichiarata in nessuna parte del mondo, una della quali non ha mai pubblicato bilanci.

Costruzioni simili possono presentarsi con l’intera economia digitale, quando le imprese che vendono servizi da un portale possono entrare in rete da qualsiasi luogo. E’ difficile perfino individuare con certezza dove i profitti vengano distratti, perché é difficile individuare dove il server – considerato la sede operativa dell’impresa – sia collocato, al limite presso una qualche piattaforma fuori da acque territoriali. Esse posso non aver bisogno di una stabile organizzazione nel paese in cui vendono e non sono quindi suscettibili di tassazione. Fra l’altro il potere di enforcement svanisce, come già appare evidente con l’applicazione dell’iva.

Due soluzioni, una possibile, un’altra organica

Per ricondurre a tassazione una serie di attività e redditi che rischiano di sfuggire, le vie possibili sono una a maggior portata di mano e un’altra organica, la quale, tuttavia, ha bisogno di trovare una determinazione politica fortissima. Nell’ambito del primo approccio, la via di uscita é passare a una tassazione sul luogo della fonte o di destinazione per lo meno per ciò che riguarda il commercio on line, applicando una ritenuta forfettaria e presumendo che il reddito sia stato realizzato dove vi sono le centrali logistiche o dove l’impresa ha significative quote di mercato, o comunque dove una parte dell’attività economica avviene e il valore viene creato. Si tratta di ripensare la Home State Taxation, vale a dire il principio di tassazione all’origine, basato sulla presenza fisica e la stabile organizzazione e sancito da trattati contro la doppia imposizione concepiti quando l’economia digitale non esisteva, e che oggi sono obsoleti. E’ una soluzione con vari rischi ma facile da gestire, capace di tamponare una situazione che sta sfuggendo di mano. Tuttavia, non é facile erigere una barriera tra economia digitale e non, e farlo per puri scopi fisclai; inoltre, la soluzione non risolve casi come Starbruck che non vende on line nulla.

Il “gran disegno” in questo campo, é idealmente un altro, che supera congiuntamente l’insieme dei problemi su cui ci siamo fermati: é quello che punta al passaggio verso una tassazione unitaria delle imprese transnazionali. Questo é effettivamente un superamento organico di uno schema di tassazione internazionale le cui strutture furono disegnate 100 anni fa quando la realtà odierna delle multinazionali non esisteva. Queste non sono costituite da una serie di unità locali tassate separatamente come se fossero unità indipendenti, come tende a considerarle la convenzione attuale, ma sono un centro unitario di affari che deriva le proprie capacità competitive dal combinare attività economica in singole locazioni oltre che dal controllo unitario di tecnologia e conoscenza. Dovrebbero essere tassate come singola unità di cui ogni branca é parte organica. Quindi il riferimento dovrebbe essere al consolidato mondiale delle multinazionali, che esse dovrebbero presentare in ogni paese dove operano, per poi venire tassato unitariamente secondo formule di ripartizione concordata del reddito che riflettano la genuina presenza in ciascun paese. Formule che pesino, tra loro e tra paesi, le unità fisiche o i costi della manodopera impiegata, gli asset fisici – esclusi gli intangibili – e le vendite. Trovare criteri contabili unitari e concordati é il più superabile di tutti i problemi, data l’esistenza ormai di standard contabili accettati. Uno schema del genere, che elide le transazioni interne, eliminerebbe alla radice la convenienza a costruzioni fittizie in paradisi fiscali o a spostare i profitti nel globo attraverso i prezzi praticati nel commercio interno al gruppo. Se ne gioverebbero le stesse imprese che potrebbero compensare profitti e perdite ottenuti in paesi diversi e ridurre i costi di compliance; se ne gioverebbero le amministrazioni che non dovrebbero riformulare la contabilità dell’impresa e mettere in atto misure difensive complesse, da cui scaturiscono innumerevoli contenziosi e che spesso coinvolgono altre amministrazioni e richiedono complicate e interminabili mediazioni. Il regime della tassazione unitaria ha, inoltre, il vantaggio di potere essere applicato da singoli paesi prima ancora che un accordo internazionale lo renda il nuovo standard per trattare la materia. Ma sarebbe comunque opportuno che si estendesse ampiamente nel globo. L’Europa dovrebbe prendere la leadership nella sua diffusione, approfittando anche del favore che esso gode in Canada e negli Usa, dove é previsto nella Frank Dodd, e dove molti stati lo adottano già ora anche per difendersi dalla competizione fiscale dei paradisi interni.

D) La CCCTB
Questo ci fa concludere che La Common Consolidated Tax Base, approvata dal Parlamento europeo sia un grande disegno? Potrebbe esserlo, ma si ferma alla soglia dall’esserlo. Allo stato della formulazione attuale ha caratteri che ne menomano enormemente la portata. 1) Innanzi tutto non é obbligatoria, ma opzionale e quindi farebbe coesistere due sistemi paralleli tra i quali le imprese possono scegliere, costringendo le Amministrazioni a trattare congiuntamente con ciascuno di essi. Finirebbe per esser il 29° sistema fiscale dell’Unione Europea, non il suo sistema distintivo di tassazione delle imprese (che al limite l’Unione stessa potrebbe amministrare trattenendo una parte dei proventi per il suo bilancio. 2) In secondo, luogo, non prevede alcuna armonizzazione della la tassa sui profitti, mantenendo in vita comunque una competizione fiscale sulle opportunità di insediamento; sarebbe stato preferibile che un’armonizzazione delle aliquote fosse accoppiata all’aggiunta tra i criteri di criteri di ripartizione di una qualche misura del reddito con pesi inversamente proporzionali. 3) In terzo luogo, prevede che i profitti consolidati siano solo quelli che derivano dalle attività europee, non quelli mondiali, in quanto la base fiscale che deriva da fonti non europee rimarrebbe separata, lasciando alle imprese l’opportunità di escludere le società intermediarie locate nei paradisi fiscali, che esse usano per evitare le tasse. Il problema dei trasferimenti di profitto e delle attività fittizie continuerebbe quindi a essere trattato con misure anti elusione, che si sono dimostrate palesemente insufficienti.

Quale prospettiva?
Pur con questi annacquamenti il progetto rischia di non essere varato mai, o di ridursi a un progetto senza una C, il consolidated (quindi di sola armonizzazione delle base imponibili). Già Lussemburgo e Gran Bretagna si sono dissociati da esso. Per essere varato ha bisogno della risoluzione di non insignificanti dettagli tecnici e del voto unanime del Consiglio di Europa, che é tutt’altro che scontato.

E qui viene a galla quella un’altro tema dolente della costruzione europea, quello che prevede l’unanimità di 28 stati in materia fiscale per decisioni vincolanti, più il parere conforme del Consiglio dei ministri, della Commissione e del Parlamento europeo. Il tutto con la supposta collaborazione dei paradisi fiscali interni. Senza superare l’unanimità sarà sempre difficile ottenere risultati concreti su queste materie, men che meno arrivare a progetti organici e effettivamente europei. Tanto meno si potrà mai approdare a decidere quale tassazione, all’interno del modello prescelto, sia necessario destinare a un bilancio europeo rafforzato (che includa anche una carbon tax e la tassa sulle transazioni finanziarie) da cui si possano trarre risorse, oltre che per altri ovvi scopi, anche a compensazione di quei paesi che possono sentirsi danneggiati da progetti che contrastano la competizione fiscale.

I paesi europei non hanno perso autonomia fiscale per la globalizzazione, ma per la competizione interna. Possono ritrovarla solo collettivamente. Ci vuole un impeto politico per risolvere le questioni di principio coinvolte. Un impeto genuinamente europeo, che sembra svanito. Se si continua a consentire una che i paesi lottino per sottrarsi reciprocamente basi imponibili e si legittima la industrializzazione di alcuni a vantaggio, quando il contesto già consente a un gruppo di paesi di prosperare sulle difficoltà di (altri finanziandosi a tasso zero senza esercitare responsabilità adeguata, e accumulando surplus di conto corrente) e la prospettiva futura é di crescita modesta e alta disoccupazione, non ci si rende conto che si sta ballando pericolosamente sul fuoco.

Salvatore Biasco

prof. di Economia Monetaria Internazionale, già Presidente della Commissione Bicamerale per la Riforma Fiscale

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