La presenza di un deficit pubblico, cioè una situazione nella quale in un determinato anno le entrate pubbliche sono inferiori alle uscite, comporta necessariamente il suo finanziamento attraverso la richiesta, da parte dello Stato, di prestiti.
Tali prestiti sono in maggioranza effettuati attraverso la emissione di titoli di credito (BOT, CCT, BTP e altri tipi), tale emissione naturalmente deve portare al fatto che tali titoli vengano acquistati. A questo va aggiunto il fatto che alcuni di questi tutoli giungono di volta in volta in scadenza e quindi devono essere emessi altri titoli a copertura di quelli rimborsati ogni anno.
La massa di titoli dello Stato in circolazione costituisce lo stock del debito pubblico. Attualmente (dato del 2010) il debito pubblico è pari a circa 1.850 miliardi di euro.
Per misurare la rilevanza economica effettiva di tale debito si usa rapportarlo al Prodotto Interno Lordo (PIL), che sintetizza la capacità produttiva del paese. Nel 2010 il debito era pari al 119% del PIL.
L’Italia partecipa all’euro e ha sottoscritto accordi che prescrivono limiti nella possibilità di indebitarsi: tale limite fu stabilito pari al 60% del PIL. Va subito detto che è un limite bassissimo e praticamente nessun paese oggi lo rispetta, ma comunque il concetto di limite a indebitarsi è vigente e quindi quello che si chiede ai paesi è di tendere a ridurre il peso del debito o comunque a non aumentarlo.
Essendo il debito pubblico italiano giunto a una percentuale pari al doppio del limite europeo, è evidente che le pressioni politiche da parte delle istituzioni europee siano forti. A tutto ciò va aggiunto il comportamento dei potenziali acquirenti dei nostri debiti, comportamento che condiziona pesantemente la richiesta dei nostri titoli e quindi il loro prezzo e rendimento richiesto. Più alta sarà la sfiducia nel nostro debito, più alto sarà l’interesse richiesto e quindi più basso il valore dei titoli.
Per ridurre il rapporto Debito/PIL si può intervenire sul numeratore del rapporto (diminuendolo), sul denominatore (aumentandolo) o su entrambi.
La diminuzione dello stock del debito (numeratore del rapporto) è possibile soltanto attraverso un attivo del bilancio pubblico e la destinazione dell’attivo al rimborso del prestito. Ma tale obiettivo può essere ridimensionato dall’aumento del PIL. Sulla base di queste considerazioni le istituzioni europee e, forse, gli acquirenti privati, si accontenterebbero del raggiungimento di un bilancio in pareggio.
Come già, detto, il deficit è dato dalla differenza fra spesa pubblica e entrate pubbliche. In Italia le entrate pubbliche coprono soltanto il 91% delle spese, il residuo 9% deve essere coperto dall’ulteriore richiesta di prestiti: nel 2010 pari a 71 miliardi di euro, il 4,6% del PIL.
La spesa pubblica ha una elevatissima componente dovuta al pagamento degli interessi sul debito, che in Italia sono pari al’8% del totale delle spese, il restante 92% è destinato funzionamento dello Stato, al pagamento dei servizi (difesa, scuola e sanità) e al trasferimenti alle famiglie (pensioni).
Si innesta così una reazione a catena: si è in deficit a causa del pagamento degli interessi, per finanziare il deficit è necessario indebitarsi e quindi si dovrà aumentare la quota di spesa pubblica per pagare gli interessi e quindi diminuire la spesa per l’attività dello Stato.
È comprensibile che, in una situazione di moneta unica e di mercato finanziario completamente libero, venga richiesta all’Italia dalle istituzioni europee e soprattutto dai mercati finanziari di porre rimedio alla situazione.
Le istituzioni europee lo fanno con il “ricatto” di esclusione dell’Italia dall’area euro, i mercati finanziari con il pesante aumento del tasso di interesse richiesto per acquistare titoli italiani, attualmente superiore al 6%, mentre la Germania può indebitarsi pagando soltanto il 2%, con uno spread del 4% (400 punti).
È facile ridurre il deficit? Attraverso quali interventi? Quali possono essere gli effetti di questi interventi? Le risposte in un prossimo intervento.